L'idea di iniziare ad arrampicare mi è venuta perché soffro di vertigini. Allo stesso modo, l'idea di scalare il Bianco mi è venuta perché mi terrorizzava l'idea. Dal momento in cui per la prima volta ho desiderato farlo, al giorno in cui sono riuscito a mettere finalmente piede su quella dannata vetta, saranno passati forse quindici anni.
La colpa, o il merito, è di un severo maestro, che mi ha imposto una filosofia integrale della montagna: allenamento, solitudine, studio e concentrazione. E così, solo così, spendendo energie e volontà per anni, è stato possibile per uno come me (che non saliva più di venti scalini senza andare in affanno) portare a segno un'impresa del genere.
Mi sono allenato per anni: corsa, scale (Potenza per fortuna è piena), arrampicata su roccia e ghiaccio (quello, poco e morbido, che trovi d'inverno sui nostri "duemila"). E poi la confidenza col vuoto, la disciplina delle scelte da fare in solitudine, l'arrampicata come equilibrio mentale e arte marziale. Intanto mi facevo adulto, e quell'obiettivo, quel vecchio "nemico" restava lì, sempre al centro della mia mente, misura di me stesso, traguardo e senso di una vita, in attesa di essere - chissà un giorno - finalmente affrontato. E così, più le mie gambe diventavano forti, più il mio spirito diventava sicuro, meno quell'obiettivo adolescenziale mi sembrava assurdo come all'inizio. Crescendo, forse avrei dovuto abbandonarlo, rendermi conto che non era alla mia portata, o che il tempo dei sogni era scaduto, e invece no.
Ho trovato poi anche un amico, un fedele, forte compagno di cordata, insieme al quale crescere e col quale darsi coraggio, ma con l'ulteriore (terribile) responsabilità di doversi far carico, anche, della vita altrui. E intanto passavano gli anni, mentre i primi capelli bianchi facevano capolino, mentre la vita ti infligge i "cento colpi" che tutti conosciamo, il pensiero era sempre lì, non invecchiava. Poi un bel giorno, dopo aver "scherzato" un po' intorno ad obbiettivi minori (altri 4000, il “giro del Pantano” sotto i 30', i due giri sotto i 70', il chilometro sotto i 4', il “sesto grado” di alpinismo), dopo aver fallito l'impresa nel 2014 dall'affollato e banale versante francese, la decisione: non ti puoi allenare in eterno, viene il momento di combattere e capire chi sei.
Partenza per Chamonix, obiettivo: la vetta d'Europa dalla poco frequentata via “de Le Trois Mont Blanc”. Una via scelta perché ardimentosa ed estetica, e perchè la “normale” italiana non ci sembrava così bella. La tabella di marcia prevede l'arrivo al rifugio Des Cosmique dopo breve camminata su ghiacciaio dal rifugio dell'Aiguille du Midi, al quale si arriva in funivia. Al “Cosmique” si mangia, ci si riposa, e la notte si parte per una scalata quasi tutta sui 4000 metri, superando, prima della vetta del Monte Bianco, il versante occidentale di altri due colossi, il Mont Blan du Tacul e il Mont Maudit.
Il Maudit, in particolare, è conosciuto per una triste caratteristica: seracchi, blocchi di ghiaccio grossi come palazzine che si staccano, centinaia di metri più sopra, e precipitano a folle velocità sugli alpinisti, non lasciando scampo. A differenza delle valanghe, non c'è verso di prevedere il distacco di un seracco; si staccano col freddo e col caldo, di giorno e di notte, d'estate e d'inverno: su questa via, 9 morti nel 2014 e 3 nel 2016, è abbastanza da metterti i brividi. E difatti, la notte non chiudiamo occhio, così ci alziamo rintronati, già stanchi, inconfessabilmente pessimisti. Praticamente ci siamo stesi alle 20:00, occhi sbarrati e respiro irregolare, rigirandoci numerose volte, e mentre ci chiedevamo se saremmo riusciti a prendere un po' di sonno: "ti-ti-ti-ti", suona la sveglia! "Cominciamo malissimo...".
Colazione triste, preparazione lenta, siamo gli ultimi ad uscire dal rifugio, è come se il cervello non abbia alcuna intenzione di prendere parte a questa follia.
Partiamo, notte fonda e poca luna, progressione lenta. Passa circa un'ora, ci leghiamo e siamo davanti al primo passaggio delicato: il profondo crepaccio che attraversa in orizzontale l'intero versante del Tacul va affrontato in artificiale, con una scaletta lunga (8/10 metri), sottile, malferma (poggia solo su un piede, l'altro è sollevato di venti centimetri dal suolo). L'abisso di ghiaccio sottostante, come orrende fauci spalancate, sembra dirmi “Aaaaaaahmmm...!”. Ok, inutile soffermarsi: agguanto con entrambe le mani la scala, mentre Paolo mi assicura a spalla, e inizio a salire. Pochi secondi e sono in alto, non guardo il crepaccio su cui sono sospeso, si balla sempre di più su questa trappola. A un tratto, mi trovo davanti al naso un anello di corda, piazzato nel ghiaccio all'uscita dalla scala per assicurarsi, o assicurare quantomeno il secondo. Non lo guardo un attimo di più, fermarsi qui è inutile, lo ignoro e passo avanti, dalla scala nuovamente al ghiaccio, dapprima marcio, poi più solido. Mi muovo delicatamente, quattro passi e sono fuori, su neve stabile, il posto giusto per assicurare Paolo. Il quale, salendo subito dopo, sento gridare come un forsennato. Non distinguo le parole, coperte dal vento, mi limito a recuperare a spalla, più veloce che posso. E - nel mentre - mi ritrovo a pensare, seduto coi ramponi puntati, che sembro proprio un alpinista vero, un alpinista come diceva il mio maestro: solo nella natura selvaggia, con la sua vita in pugno, verso il cielo. Le luci lontane di Chamonix, che brillano nella notte, sotto di me, fanno cornice al mio incosciente romanticismo. Risorgo dal mio volo pindarico solo quando Paolo esce dal brutto passaggio: “cazzo urli?”, gli dico, illuminandolo con la torcia frontale. E lui: “quando salivi tu, io tenevo ferma la scala, ma a me non la teneva nessuno”. Povero amico mio, deve aver ondeggiato davvero tanto, sul precipizio. Dunque per sdrammatizzare gli dico: “non esagerare, è meno pericoloso della Iaccara (la tradizionale fascina di canne che si scala alla festa patronale, di cui Paolo è stato uno dei salitori)”. Ovviamente non è vero.
Pronti via, si riparte, ancora per i lunghi zig-zag della traccia, superando altri piccoli crepacci (o almeno, ci sembrano piccoli dopo aver visto quell'altro), fino all'ultimo delicato passaggio, circa un paio d'ore dopo: una crepacciata da superare su un affilato ponticello di neve, che obliqua verso destra, e dal quale si esce piegando sulla sinistra, superando il lembo superiore della crepaccio, un risaltino di ghiaccio vivo. Passaggino molto esposto, delicato, anch'esso superato senza pensarci troppo. L'uscita da questo passaggio ci porta sulla spalla nord del Tacul, dalla quale si ridiscende, con ampio percorso ad arco, dolcemente alla volta del Maudit.
E' qui che cadono i seracchi; ne possiamo intuire la minacciosa presenza, molto in alto sopra di noi, man mano che ci avviciniamo al versante da scalare. Più ci avviciniamo, più si intuiscono, tutto intorno, i resti dei rovinosi crolli. Per uscire dal “cono” degli sfasciumi ci vuole un po', ma senza troppo pensare siamo fuori e, per la prima volta, iniziamo a sperare bene: i piedi sono finalmente caldi, i muscoli sciolti, il respiro finalmente leggero. Il Maudit è molto ripido, e ci costringe a una salita sempre di mezzacosta, lungo una traccia dove c'è posto per un solo piede alla volta. Crepacci, grandi (davvero grandi) e frequenti, immediatamente sotto di noi, passaggi più delicati ed esposti, ma oramai lo spirito è leggero, il sole annuncia il suo arrivo e, per un po', riusciamo persino a raggiungere le altre cordate. Poco più avanti c'è l'ultimo passaggio tecnicamente significativo della via: un muretto di alcune decine di metri, ghiaccio quasi verticale, ghiaccio vivo, per “uscire” sulla spalla del Maudit. Il passaggio è attrezzato con una corda fissa, ma non dà molta fiducia: è tesa, dura come l'acciaio, ha evidentemente risentito del movimento degli ancoraggi piazzati tra i diversi blocchi di ghiaccio tra i quali è piazzata, e la guaina è molto rovinata. Protezione solo “psicologica”, meglio non cadere.
Facciamo però l'errore di attaccare la paretina subito dopo la cordata di due alpinisti baschi. Credevamo fossero forti, perché li avevamo visti procedere con rapidità. Ma quando ce li siamo ritrovati fermi cinque metri sopra di noi, completamente bloccati sulla corda fissa, abbiamo capito che il rischio era serio. Noi ci eravamo assicurati con un moschettone a ghiera, così, volante, tra la corda fissa e quella nostra di cordata. Loro, a quella corda fissa, si erano letteralmente impiccati con sicurezze cervellotiche e ridondanti, intrappolandovi sé stessi e mezza attrezzatura. Ho pensato: “se vengono giu, siamo fritti”. Provo a gridargli di sciogliere tutto, di liberarsi, ma niente. Peraltro il mio Inglese da incazzato è pessimo. Passa un'ora, così, fermi sui polpacci in fiamme. Dunque, dico a Paolo di slegarci e superarli sulla sinistra, non voglio pagare per gli errori degli altri. Il tempo di affiancarli, e questi due (non so come) si liberano e, in qualche modo, escono quasi insieme a noi.
Parliamo un po' con loro, una volta fuori, io gli dico che le sicurezze non si fanno in quel modo, loro non rispondono, chiedono scusa. Forse è l'adrenalina che mi fa arrabbiare tanto, quindi mi dispiaccio un po', gli sorridiamo. Mi giro indietro verso il vertiginoso muro appena scalato, mi affaccio e ammiro, finalmente al sole, la mole dei due giganti appena superati. Poi mi giro, guardo avanti, e lo vedo. Il Bianco, il compagno dei pensieri di un'intera giovinezza.
Siamo molto stanchi, ma abbiamo ancora energia e il Bianco è lì, inaspettatamente lontano eppure finalmente alla nostra portata, come una bella donna che si ritrae, civettuola, per farsi seguire. L'adrenalina è a mille, il senso di tutto è davanti a noi, e ci aspetta. Ancora alcune ore, lunghissime, nel sole infuocato, nell'atmosfera sempre più sottile. Io e Paolo iniziamo a procedere distanti, lenti, solitari, senza parlare né guardarci. Finché i piedi non diventano leggeri, nell'ultimo dolcissimo tratto, meno ripido, prima della vetta. La vetta!
Mio Dio.
A pensarci in quel momento, non ho mai creduto di esserne veramente in grado, eppure non ho mai smesso di prepararmi per farlo, e adesso che sono lì, guardo il mio amico, siamo svuotati entrambi all'improvviso di ogni grinta, e scoppiamo in lacrime, ci abbracciamo, imprechiamo e ridiamo.
Lasciamo lì sopra Pio e Paolo ragazzi, soddisfatti di averli accontentati, di avere onorato una promessa fatta a loro anni prima, e torniamo al mondo dei grandi. Se guardiamo indietro, mentre iniziamo a scendere, ci sembra quasi di vederli, loro due seduti sulla vetta, a guardare, soddisfatti, il vicinissimo orizzone.
Scendiamo dalla via del Gouter, ed è tutto così godibile, leggero. Le Bosse, che nel 2014 ci avevano visti, da lontano, arrenderci... che spettacolo! In discesa si comprende davvero quanto siamo in alto, si capisce davvero dove diavolo siamo arrivati, sulla cima della schiena di un gigante che dorme e sembra dominare, con la sua sola mole, mezzo mondo.
Arriviamo alla capanna Vallot (4300 mt circa), un rifugio di emergenza, e ci sentiamo talmente forti che decidiamo di godercela, di dormire lì, senza sacco, con poca acqua e poco cibo.
Mentre la scabra casetta di metallo si riempie di alpinisti (tutti in attesa di attaccare la vetta il giorno dopo), prepariamo lentamente l'ultimo panino (magro, ma con prodotti lucani), sorseggiamo dal thermos un thè ormai freddo, beviamo tanta acqua (tutta), parliamo tra noi due dell'incredibile avventura. Abbiamo anche la soddisfazione di poter rispondere, a due alpinisti che salivano in vetta da quella facile via (quella del Gouter), e che ci chiedevano a che ora saremmo partiti il giorno dopo, che noi stavamo tornando, e che la vetta l'avevamo già raggiunta, da una via molto più bella. Loro ci fanno i complimenti: “Paolo, ci hanno scambiati per due alpinisti forti...” dico a bassa voce al mio amico. E giù risate.
Comunque, a parte la figura di quelli forti, abbiamo fatto anche un'altra figura: di quelli poveri. Niente sacco a pelo, ci siamo arrangiati con qualche pellicola termica e una coperta cenciosa trovata a terra. Un giaciglio pietoso (puzzolente no, ma solo perché lì sopra non ci sono batteri) ma che a noi è sembrato il letto di un re.
Freddo cane, ovviamente abbiamo potuto dormire soltanto fino a quando c'era gente fuori dai sacchi, e intenta a cucinare. Una volta tornato il silenzio, una volta spenti i fornelli e rientrati tutti nei sacchi, la temperatura è diventata impossibile. Quindi, sveglia ore 3:00, ripartenza verso il Rifugio Du Gouter (3800 mt circa), raggiunto nella prima mattina, discesa dalla parete del Gouter (nel 2014 ci sembrava pericolosa, questa volta ci è sembrata pianura), poi sosta, lunga e finalmente corroborante, al rifugio De La Tete Rousse (3100 mt circa), dove abbiamo ingollato un litro di coca cola a testa.
E poi giu, svelti fino al Nide d'Aigle (2300 mt circa), dove si prende il trenino a cremagliera che ti porta a Chamonix. Birretta in paese, e si torna. Stanchi, sporchi ma felici. Grazie Otto, grazie Paolo.
Pio Belmonte